Solo solitudine e poesia, cane della prateria!

Quando non mi sento centrata con me stessa e i miei desideri, quand’anche la terra sotto i piedi viene a mancare, quando una sensazione di precarietà si insinua fra me e i miei pensieri, e non mi permette di respirare se non con affanno, e mi stritola pericolosamente fra le sue spire, sento il bisogno irrefrenabile di buttarmi sulla poesia. Già, la Poesia.

È proprio nell’oscurità che ho scoperto l’apparente semplicità di Saba, l’analogia di Montale, la “gioia di scrivere” della Szymborska: tre autori associati ad altrettanti periodi per me impossibili da dimenticare, volente o nolente. È nella difficoltà e nella mancanza di prospettive che riscopro la Poesia, quella boccata d’aria fresca che ti brucia nei polmoni, che ti fa male quando inspiri ma che ti permette anche di vivere, di continuare a sperare. Nell’oggi, nel domani, all’infinito.

La Poesia, soffio vitale in un mare di desiderio represso, appiglio saldo alla bellezza del mondo, chiave di volta per la comprensione del proprio Io, silenzio decantato in versi di sublime e magistrale fattura. Caro mi è il motivo della bellezza-autentica-che-ferisce (ma non perisce), cara mi è per questo la poesia e il suo volteggiare affrancato da tutto e tutti!

In un momento di stasi, in cui vacuità si alterna a pienezza, con alti e bassi senza una propria periodicità, sento il bisogno di poetiche non mie, di pensieri brevi e concisi, di parole ben incastonate fra loro, a tenone e mortasa, lampi saettanti di flessuosa lirica creati da menti altrettanto reattive. Menti diverse dalla mia che, con mio grande dispiacere, non è capace di forgiare sonetti, ballate, sestine o odi: condensati di verità che non plasmo come argilla, ma che amo scoprire con umiltà. Menti da ammirare per ciò che sono in grado di esprimere. Con accortezza, scioltezza, disinvoltura. Stupefacente.

Ecco perché non mi destreggio in versi: mi limito a leggerli con diletto. Specialmente il verso libero, che si abbandona, vaporoso, ad assonanze e consonanze non senza un loro perché. Ma non serve spiegarne le ragioni. Ascolta. Non parlare.

Oggi voglio proporvi una poesia particolare, particolare per vari motivi. Anzitutto perché oggi è la prima volta che vede la luce, dopo quasi trent’anni di oblio e caduta libera; particolare perché è un concentrato di emozioni pregnanti, a partire dal titolo che è tutto un programma.

Si chiama “Storia di una morte” ed è stata scritta nel lontano aprile 1982. Non ero ancora nata, ed evidentemente non si tratta di un’opera mia. Infatti, è frutto degli sforzi di un carissimo amico (“talentuosissimo” viene da sé), che pochi anni fa ho avuto il piacere di incontrare. Le nostre strade, seppur affluenti di quel medesimo fiume chiamato Caso, hanno stentato ad avvicinarsi: non per timore, ma per ignoranza l’uno dell’altra. Poi, si sono intrecciate inestricabilmente e da allora l’una nutre l’altra in un continuum che non fa che arricchire, dare, donare in maniera disinteressata. “Affinità elettive” fra animi simili ma non uguali.

In questa sede, ripropongo versi di sua creazione allorché, ragazzo poco più che ventenne all’epoca, trovava conforto nella scrittura.Vomitavo versi”, mi ha poi ammesso. Talvolta con estrema fatica, talvolta con incredibile naturalezza. Alle volte preso da un “rigurgito esofageo” (“le parole”, sempre sue, “fuoriescono dallo stomaco, se non dall’intestino e forse un po’ anche dal cuore”), altre volte animato da un’amarezza talmente violenta da non conoscere freno.

Ho tanto insistito per pubblicare il suo lavoro, e ora ne scoprirete il perché.

“Storia di una morte” non è soltanto un monito a considerare l’altra faccia della medaglia, quel tabù misconosciuto che è la Morte. Se è vero che di primo acchito potrebbe parere una riflessione incentrata più che altro sul nostro trapasso, in realtà è una storia di “vita vera”, di una vita in particolare: di quella che fa a pugni col mondo, di quella che non si arrende, di quella che vuole urlare e farsi ascoltare, ma che irrimediabilmente rimane inascoltata. È la storia di un bambino bistrattato durante l’infanzia, di un ragazzino dalla corazza dura, caparbio e ostinato a seguire il proprio percorso, dimentico delle regole, dall’indole anarchica e irriducibile a schemi prestabiliti, a precetti predeterminati, ai dettami della collettività in cui è immerso fino al collo (ma non fino all’osso). Il ragazzo scalmanato, dopo anni difficili, si è fatto infine uomo: il temperamento è lo stesso, le condizioni in cui si trova a operare non più – ha una famiglia, un amore, un lavoro, senso del dovere, priorità, responsabilità. Le cose sono cambiate, ma lui si sente terribilmente solo.

“Storia di una morte” è l’esemplificazione più compiuta e cruda della solitudine, “morte sociale” per definizione, che qui trova concreta rappresentazione in un cane della prateria, un randagio che nessuno vuole e che tutti disdegnano, il “diverso”, l’emarginato, l’isolato, il “genio ribelle”, lo scemo del villaggio o, più semplicemente, un incompreso patentato…

“Storia di una morte” mi è stato presentato come un racconto autobiografico. L’autore mi ha pregata di farlo scivolare dolcemente nell’anonimato, seppure al contempo mi abbia concesso anche un buon margine di licenza poetica (è proprio il caso di dirlo!). Ovviamente non mi sono permessa di modificare alcunché, semmai ho aggiunto: partendo dal presupposto che ogni cosa è conoscibile soltanto se ha un nome proprio, e considerando che è mio intento farvelo conoscere, ho pensato bene di attribuirgli uno pseudonimo, un “nome d’arte” per così dire, ovvero Rudi.

Rudi che ha un suo perché, Rudi che non è per niente casuale – solo Lui sa.

Buona lettura!

terra desolata

Storia di una morte

La solitudine lo assalì.

La materia si sciolse nella testa.

 

La fame e i patimenti presero il sopravvento,

e la femmina morta in una trappola,

cane della prateria.

 

Dove sei leggenda,

dove sei sogno?

 

E vagò, vagò…

Tra boschi e notti di luna piena,

braccato dagli uomini che volevano la sua pelle

perché, affamato, aveva assalito un pollaio.

Pensa, solo un pollaio,

cane della prateria.

 

C’è solo realtà

c’è solo morte

 

Una fucilata che spacca le orecchie e la pelle;

perché ho così male? Perché tutto questo sangue?

Correvo forte una volta…

ora…

non ci riesco…..

e non vedo più…! Io che vedevo così bene….

aspetta….

mi fermo e mi sdraio…

solo un momento….

un momento……

cane della prateria.

 

Non c’è più leggenda, né sogno,

solo realtà,

e morte.

Cane della prateria…

4 pensieri su “Solo solitudine e poesia, cane della prateria!

    • Ora l’ho voluta ascoltare anch’io (che voce!), e nel frattempo ho letto, ho riletto tutto, le mie parole come le sue…e devo darti ragione su tutta la linea: non potevi scegliere termini più azzeccati! “Desolazione” e “randagismo” che, in fondo, non sono poi condizioni universali, condizioni che ognuno di noi ha vissuto (in misura maggiore o minore), condizioni estreme dell’Uomo d’ogni spazio e tempo?!
      Grazie a te!

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